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La
Storia di Napoli : Età Angioina
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Carlo
I d'Angiò
(1266-1285)
T.Solari - 1888 - Facc. Palazzo
Reale Napoli
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L’avvento
degli angioini segnò una svolta determinante
nella storia del Meridione e in particolare
di Napoli che dal 1282, a seguito dei Vespri
Siciliani, diventò la capitale del Regno,
il fulcro di ogni attività sociale e
culturale e assunse un ruolo di preminenza rispetto
agli altri centri campani, come non era avvenuto
nei secoli di dominazione precedente.
I
sovrani angioini si trovarono a dover organizzare
un vero e proprio impero e in alcuni settori
stabilirono un rapporto di continuità
anche con la dinastia precedente.
L’ordinamento
amministrativo, ad esempio, rimase sostanzialmente
invariato con la suddivisione della città
in "sedili" - fabbriche di cui non
rimane più traccia -, dove si riunivano
gli eletti della nobiltà (e in seguito
del popolo), che nominavano i rappresentanti
delle circoscrizioni presso la Corte e il Capitano
della Piazza.
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Dal
punto di vista urbanistico nel periodo angioino Napoli cominciò
a cambiare volto.
Il
centro ducale assunse il carattere di area conventuale e
religiosa, mentre le attività commerciali e di rappresentanza
e il centro direzionale furono spostati sulla fascia costiera,
intorno alla nuova residenza regale di Castel
Nuovo, allo scopo di operare una sorta di decentramento,
differenziando le funzioni delle singole aree cittadine.
Accanto
al parziale ampliamento delle mura vi furono la nascita
di nuove zone residenziali (il Largo delle Corregge, la
regione di Carbonara) e la relativa urbanizzazione di Chiaia
e della collina di Sant’Erasmo, la bonifica della zona situata
presso l’attuale Ponte della Maddalena, la lastricazione
delle strade, la realizzazione di ingenti opere fognarie,
la creazione di "tribunali" responsabili di singoli
settori della vita pubblica (tribunale delle acque e
mattonate per le strade, tribunale delle fortezze
per le porte e le mura) e, soprattutto, l’ampliamento del
Porto e la creazione del Mercato, lavori con i quali gli
angioini mostrarono di aver compreso l’importanza dei rapporti
e dei traffici marittimi e la conseguente funzione economica
e strategica del porto di Napoli.
Distrutti,
purtroppo, a causa dello sventramento ottocentesco le logge,
i fondaci, i banchi e il mercato, il volto della città
angioina sopravvive grazie alle numerose fabbriche religiose,
edificate dai sovrani in base a un preciso programma politico
teso a proteggere gli ordini monastici mendicanti, verso
i quali era più incline il senso religioso del sovrano,
e per caratterizzare la conquista del Regno come missione
di "pietà" voluta dal Cielo e richiesta
dal Papato.
Tale
concetto è efficacemente espresso nella pala di Simone
Martini dipinta per la chiesa di San
Lorenzo Maggiore e oggi al Museo di Capodimonte, con
San Ludovico e storie della sua vita, dov’è raffigurata
l’incoronazione terrena di Roberto d’Angiò al trono
di Napoli e quella celeste di San Ludovico, fratello del
re, francescano spirituale, quindi dissidente.
La
pala concludeva una lunga vicenda imperniata sui delicati
rapporti tra la corte angioina, la curia pontificia, allora
ad Avignone, e il ramo conventuale, cioè ortodosso,
dell’Ordine francescano ed è un documento figurativo
di altissima qualità, solo in parte recepito dall’ambiente
napoletano, maggiormente orientato verso l’aderenza al reale
che verso le eleganze formali di Simone Martini.
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Risalgono
al periodo angioino i complessi monastici di Sant’Eligio
Maggiore, di San
Lorenzo, di Santa Maria Donnaregina, e il Duomo,
dove si leggono le numerose stratificazioni che, fino
al rifacimento barocco, si aggiunsero ai caratteri
dell’architettura del tempo di Carlo II.
E
ancora: i monasteri di Santa
Chiara - voluto dalla pia Sancia di Maiorca, la
seconda moglie di Roberto d’Angiò e di San
Pietro a Maiella, dedicato al papa Celestino V,
l’eremita Pietro da Marone; la chiesa di Santa Maria
Incoronata e la Certosa
di San Martino, oggi fortemente connotata anche
dai rifacimenti tardomanieristi e barocchi. L’edificazione
delle numerose fabbriche religiose comportò
la presenza a Napoli di molti artisti, anche stranieri,
e la formazione di una scuola che fuse i modi del
gotico di Oltralpe con la tradizione locale e che
fu in grado di sperimentare con alti risultati il
nuovo linguaggio espressivo maturato dapprima nel
segno della civiltà comunale, gotico e cortigiano
già alla meta del 1200.
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Facciata
del Duomo
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Chiesa
di S.Chiara
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Tino
di Camaino
Sepolcro di Maria d'Austria
Chiesa S.Chiara
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Simone
Martini
S.Ludovico
Museo S.Martino
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La cultura architettonica di età angioina,
ad esempio, ebbe caratteristiche autonome nella ricerca
di uno spazio unitario ottenuto con la presenza di
archi e transetti non sporgenti, coperture a capriate
lignee e l’uso di massicce pareti spesso ricoperte
da cicli pittorici ad affresco.
Nel
campo della pittura si determino, a partire dal 1280,
una situazione estremamente articolata, a sottolineare
il carattere di circolazione "mediterranea"
che si sviluppo anche nei due secoli successivi.
Gli
’ultimi risultati della produzione francese si unirono
ai più vivaci caratteri espressivi della miniatura
bolognese - come nel Messale del Duomo di Salerno
-, alle residue persistenze bizantine e, soprattutto
nel settore della decorazione dei vetri e delle maioliche,
islamiche. Nasceva intanto un filone di ascendenza
franco-catalana derivante dall’area pirenaica come
nella tavola con San Domenico benedicente in San
Domenico Maggiore e infine ulteriori arricchimenti
provenivano dai rapporti con alcune aree del Mediterraneo
occidentale: la Provenza, il Roussillone e la Catalogna.
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Poco
dopo l’inizio del regno di Roberto I s’iniziò a guardare
anche alle esperienze maturate nell’Italia centrale, nei
cantieri di Assisi e Orvieto, dove lavoravano Cimabue e
Giotto: ne derivò un nuovo linguaggio espressivo
che sul filone gotico francese costruiva una tradizione
figurativa autonoma, italianizzante.
Al
1308 risaliva la presenza a Napoli di Pietro Cavallini,
che nel ciclo di affreschi in San
Domenico Maggiore lasciò la testimonianza figurativa
di maggiore aderenza al linguaggio giottesco.
Linguaggio
già prontamente recepito dall’ambiente napoletano
nel ciclo con Storie della Maddalena (chiesa di San
Lorenzo Maggiore, prima cappella destra del deambulatorio),
del 1300 circa, di un allievo assisiate di Giotto, e dal
gruppo di pittori - tra cui, forse, anche il vecchio Filippo
Rusuti - che operavano a Donnaregina.
In
questo clima culturale si colloca la presenza a Napoli di
Giotto (1328-33), della cui attività rimane pero
ben poco, persi quasi del tutto gli interventi in Santa
Chiara (1328- 30) e nella Sala Maggiore in Castel
Nuovo.
Il
linguaggio del maestro è pero documentato dalle opere
superstiti degli allievi: l’affresco nel Refettorio di Santa
Chiara con il Redentore in trono tra la Vergine e
Santi (1340) di Lello da Orvieto e le anonime Storie
mariane nella Cappella Barrile in San Lorenzo Maggiore
(1333-34), dal forte impianto plastico - geometrico caratteristico
di Maso di Banco, il più importante allievo di Giotto.
Infine,
gli affreschi di Santa Chiara Incoronata, di Roberto d’Oderisio,
che concludevano l’intero discorso sulla cultura giottesca
a Napoli, nel senso della ricerca sia cromatico-prospettica
che plastico-geometrica.
La
presenza di Tino da Camaino, di Pietro Cavallini, di Giotto
e dei suoi allievi, i legami con Simone Martini attraverso
la pala della chiesa di San Lorenzo, e di tanti altri maestri,
sottolineano quell’aspetto della corte - legato in particolare
alla figura di re Roberto - di grande mecenatismo e di spregiudicato
cosmopolitismo, che caratterizzò il periodo angioino
come uno dei momenti più significativi nella storia
della città.
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Un
cenno, infine, all’edificazione di Castel Nuovo,
la dimora dei sovrani iniziata da Carlo I, proseguita da
Carlo II con l’erezione della Cappella Palatina, e da Roberto
con la creazione di alcune sale di rappresentanza e del
parco.
A
quest’epoca si registrava a Napoli la presenza di Giotto
che in Castel Nuovo lasciò due cicli di affreschi,
di cui attualmente rimangono scarse tracce negli sguanci
delle finestre all’interno della Cappella di Santa Barbara,
l’unica parte superstite della reggia angioina prima delle
trasformazioni di epoca aragonese.
I
decenni finali della dominazione angioina (il ramo d’Angiò
Durazzo) si caratterizzarono come un periodo di lotte intestine
e dispute dinastiche: dal 1380 al 1442 circa, Napoli subì
più distruzioni che iniziative e di conseguenza poche
furono le opere di qualche rilievo, peraltro di cultura
già quattrocentesca, come, ad esempio, le chiese
di San Giovanni a Carbonara e di Sant’Angelo
a Nilo e la Cappella Pappacoda.
(Patrizia
Di Maggio)
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